
Alcuni anni fa qualcuno aveva definito, con sorprendente esattezza, horror pleni la piega che la società stava prendendo.
Troppi desideri, troppi oggetti, troppi consumi, troppi canali comunicativi, in una giostra vorticosa che ai tempi era solo all’inizio.
La velocità di quel vorticare oggi si traduce in un caos di messaggi intermittenti e così istantanei da dare ormai a tutti l’impressione ansiogena che non ci sia più tempo per nulla.
Il dialetto, al contrario, non ha mai subito il fascino di certe distrazioni, fedele com’è alle sue radici.
Ecco perché un pezzo celeberrimo come “La Rosina” continua a piacere: ha il sapore dell’autenticità salda nel suo territorio e parla con un suo vocabolario espressivo assai lontano da quello più codificato della lingua nazionale.
Il talento dell’interprete ne consacra di certo il successo, cresciuto com’è nel teatro dialettale ponentino. Un figlio d’arte – bisogna ammetterlo – responsabile di aver traghettato la tradizione di una comicità che viene a noi dal passato e che fa ancora molto ridere.
Com’è possibile che un pezzo su una donna maltrattata dal marito e che ne piange la scomparsa faccia ridere?
Ebbene, innanzitutto occorre svestirsi da certi panni moralizzatori e andare oltre, lasciando che almeno stavolta il teatro abdichi alla funziona sociale di cui spesso si ammanta.
Si deve allora cominciare dal racconto di una tradizione che solo l’uso del dialetto restituisce e per farlo si avvale di un personaggio comico estremizzato e posto sul crinale di un evidente paradosso. Un dialetto che consente a buona parte del pubblico di specchiarsi nelle proprie radici e, nel riascoltarlo così raramente, di sentirsi appartenere a un mondo rurale che sta quasi del tutto sparendo.
E poi c’è la poesia. Alle orecchie di chi lo capisce poco o per niente il dialetto assume i tratti di una lingua magica, quasi esoterica, e attraverso l’attore riesce a essere egualmente espressiva.
Infine, ci sono forse i più giovani, quelli abituati fin da subito alla lingua nazionale (che altro non è che un dialetto che ha avuto più fortuna degli altri), che magari capiscono ma non parlano, ma che amano sentire ciò di cui sono figli con quell’apertura mentale che non ha bisogno di castrare l’arte sotto l’etichetta troppo abusata del politically correct.
Non dimentichiamo che chi muore innumerevoli volte è Buonanima. Rosina è immortale e ci parla per sempre, invitandoci alla lentezza, a respirare con calma, allo stare seduti al fresco estivo di un paesino dell’entroterra, senza la preoccupazione frenetica di dover fare nient’altro che ascoltare.
Si ringraziano per l’organizzazione del Festival del Maro l’Associazione MusicaArteMia di Aurigo e per la bellissima serata in provincia di Cuneo Monsignor Mario Ruffino (Comune di Alto). Vi aspettiamo con la Rosina a fine agosto a Tovetto (i dettagli al seguente link: Programma). Foto Marco Macchiavelli.
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